TURNOVER: IL VERO COSTO DI UNA MAMMA CHE LASCIA IL LAVORO
- 17 apr
- Tempo di lettura: 4 min
Ogni anno, in Italia, circa 40mila donne lasciano il lavoro quando diventano mamme.
Per la precisione, secondo la relazione annuale dell'Ispettorato Nazionale del Lavoro (INL), nel 2022 sono state contate 44.669 dimissioni volontarie di madri lavoratrici entro i primi tre anni di vita del figlio (parliamo del 72,8% del totale delle dimissioni convalidate!). Questo dato, che da un lato evidenzia la gravità del fenomeno chiamato maternal wall, ha un risvolto meno noto ma ugualmente impattante: i costi del turnover.
In questo articolo scopriremo il vero costo di una dipendente che lascia il lavoro dopo esser diventata mamma e quali sono le misure preventive che l’azienda può adottare per ridurlo al minimo.
Premessa: gli studi di riferimento
Circa un anno fa, JOINTLY, in collaborazione con TEHA The European House - Ambrosetti, ha pubblicato lo studio Benessere e Produttività: i benefici economici del Corporate Wellbeing e i costi del “non fare” per le aziende, cha analizza costi diretti e indiretti dell’assenza di una politica di wellbeing nelle aziende.
Il tema del wellbeing in azienda è emerso con maggiore insistenza negli ultimi anni, durante i quali le aspettative dei lavoratori si sono evolute, con una maggiore attenzione e predisposizione alla ricerca del work-life balance.
Gli studi sul tema sono tanti e analizzano i costi da diversi punti di vista. Tutti, però, concordano su una cosa: i costi reali del turnover hanno effetti molto più profondi del “solo” perdere forza-lavoro.
Gli studi che abbiamo analizzato mirano a presentare tutti i vantaggi di cui godono le aziende con una politica di benessere interna e, di contro, tutti gli svantaggi a cui deve far fronte l’azienda che invece non applica alcuna wellbeing policy.
Ecco quindi il lato nascosto del turnover: il vero costo di una mamma che lascia il lavoro.
Gli svantaggi del turnover: il vero costo di una mamma che lascia il lavoro
I costi legati al turnover sono maggiori di quello che si pensa. Infatti, mentre alcuni sono diretti e di visibilità immediata, altri sono indiretti e, a volte, invisibili. Consideriamo un lavoratore con profilo di seniority medio-alta e con un’esperienza di oltre 10 anni. Ecco qualche esempio di costi legati alle sue dimissioni:

Specifichiamo anche che questi costi e queste perdite aumentano in funzione della specificità della mansione ricoperta dal dimissionario, e quindi della rarità del know-how implicato, e delle dimensioni dell’azienda in questione: maggiori sono la specializzazione del dipendente e la dimensione dell’azienda, maggiori saranno le perdite economiche in caso di dimissioni.
In media è stato calcolato un costo pari al 50% della RAL ma, secondo una ricerca di Gallup, il costo del turnover può arrivare a costare fino a due volte lo stipendio annuale!
Un esempio concreto
Cerchiamo ora di quantificare i costi del turnover con un esempio numerico.
Consideriamo un dipendente con una RAL di €35000 (poco superiore alla media italiana, in quanto il profilo dei neo-genitori ha già una seniority lavorativa medio-alta alle spalle) che lascia il lavoro. I costi medi legati alle sue dimissioni possono essere suddivisi, in base al peso su cui gravano, nelle tre macroaree di “donne e famiglie”, “aziende” e “Stato e Sistema Paese”. Ecco i costi riassunti:

Vari sono i fenomeni che si intrecciano, partendo da una riduzione del reddito del nucleo familiare e conseguente riduzione del contributo pensionistico (che solo in parte è compensato dalla NASPI per i primi due anni dalle dimissioni), arrivando all’impatto sul PIL, alle minori entrate fiscali ed al costo della disoccupazione per lo Stato.
Passando ovviamente per il costo del turnover per le aziende, che in questo caso può superare il 50% della RAL, in quanto prevede per legge due mensilità di “mancato preavviso” al momento delle dimissioni del neo-genitore.
Si può dire quindi che si tratta dell’esatto contrario di un win-win: ci perdono tutti.
Prima di svelare qual è la soluzione al turnover e all’abbattimento dei veri costi di un dipendente che va via, cerchiamo di capire per quali sono i principali motivi che spingono un genitore lavoratore a presentare le dimissioni.
Perché i genitori lavoratori danno le dimissioni
Secondo la relazione annuale dell’INL citato a inizio articolo le motivazioni che hanno spinto le neomamme a lasciare il lavoro possono essere riassunte dalla seguente tabella:

Oltre all’evidenza che le mamme sono decisamente più penalizzate dei papà nel conciliare famiglia e lavoro al punto di vedersi costrette a dare le dimissioni, risulta chiaro anche che i motivi principali dell’abbandono del posto di lavoro sono, nella maggior parte dei casi, legati all’impossibilità oggettiva di conciliare il nuovo lavoro di cura con la carriera professionale.
Cosa può spingere, allora, un lavoratore o una lavoratrice a continuare a lavorare per un’azienda anche dopo essere diventati genitori?
La risposta è (quasi) troppo semplice per essere vera: l’inclusività sul luogo di lavoro convince quasi due terzi dei dipendenti a restare fedeli alla propria azienda (fonte: equalture.com).
Anzi, di più: le aziende family-friendly registrano il 100% di tasso di rientro.
Cosa si può fare, allora, per rendere la propria azienda più inclusiva ed evitare i pesanti costi del turn over? Scopriamolo insieme.
La soluzione e i suoi vantaggi
Rendere un’azienda family-friendly o, più in generale, inclusiva è prima di tutto una questione di volontà. Per i più scettici, abbiamo già dato qualche spunto in un precedente articolo su COME RENDERE LA TUA AZIENDA FAMILY-FRIENDLY A COSTO (QUASI) ZERO, mentre nell’articolo LA COMUNICAZIONE: LA MISURA FAMILY-FRIENDLY GRATUITA CHE NON TI ASPETTI abbiamo analizzato la misura inclusiva gratuita per eccellenza.
Ma cosa si aspettano esattamente i dipendenti da un’azienda inclusiva? L’abbiamo chiesto direttamente a loro per voi, e i risultati sono chiari:

(Per maggiori approfondimenti sulla Survey puoi leggere QUALI SONO LE ESIGENZE DEI GENITORI NEL MONDO DEL LAVORO? )
E la parte migliore deve ancora venire.
Parliamo dei vantaggi:
maggiore produttività (+20%)
aumento potere d’acquisto (+12%)
rientro dopo la maternità (100%!)
e, ovviamente, riduzione del costo del turnover!
È stato persino calcolato il valore del corporate wellbeing come moltiplicatore economico pari a 4,5 della spesa!
Un esempio: a fronte di una spesa pro capite di €2’500, si abiliterebbe un valore reale pari a €11’258. Non male, vero?
Investire sul benessere dei dipendenti equivale a investire sulla propria azienda.
Foto di copertina: freepik.com