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Genitorialità, lavoro e parità di genere: facciamo il punto


Lo sapevi che in Italia le donne laureate sono di più degli uomini? Proprio così, sono in media il 60%. Sempre in media inoltre, le donne si laureano in tempi minori e con voti più alti. Eppure, ad oggi, una donna su due non lavora, l’81% delle imprese è gestita da uomini e dobbiamo ancora fare ancora i conti con un tasso di disoccupazione femminile del 9,2% contro il 6,8% maschile. (Dati ISTAT e Gender Policies Report 2022).


Quando si diventa genitori, poi, le cose si complicano un po’ e sono quasi sempre le donne a farne i conti.


In questo articolo faremo un punto sulla situazione della genitorialità in Italia, con dati alla mano e alcuni esempi di azioni virtuose che hanno saputo fare piccoli ma grandi passi per “creare una cultura che supporti una genitorialità uguale per tutti, indipendentemente dal genere” (Håkan Samuelsson - CEO di Volvo).

Prima però, facciamo un passo indietro.


Il lavoro di cura: un fardello generazionale


Cosa si intende per lavoro di cura? È quell’insieme di attività che riguardano il lavoro domestico e la gestione dei figli o di familiari anziani e/o malati.

Secondo il report 2022 di Generazione Donna a livello globale, in media il lavoro di cura non retribuito è svolto per il 75% da donne, una percentuale che sale all’80% per l’Italia. Le donne trascorrono quindi in media il doppio del tempo rispetto agli uomini in attività domestiche e di cura.


Ma perché questo squilibrio?


Questa "femminilizzazione" del lavoro di cura è frutto di una cultura patriarcale radicata profondamente nella nostra società, secondo la quale la gestione dei figli e delle faccende domestiche spetta “naturalmente” alla donna o madre, soprattutto se all’interno della coppia o della famiglia.

Attualmente la generazione che più ne paga le conseguenze è la cosiddetta “generazione sandwich” cioè persone, prevalentemente donne, tra i 50 e i 60 anni sulla quale grava sia il carico di cura dei genitori anziani che quello dei figli.


Quali sono le conseguenze?


Ancora oggi i lavori domestici continuano a essere sbilanciati per la componente femminile: è molto più facile che una neo-mamma - non riuscendo a conciliare carriera e gestione dei figli - dia le dimissioni.

Secondo i dati INL 2020, infatti, il 77% dei neo-genitori che decidono di dare le dimissioni sono donne che decidono di assecondare il lavoro di cura, mentre la quasi totalità di uomini che danno le dimissioni lo fanno per passaggio a un’altra azienda.

Se ci concentriamo invece sul tasso di inoccupazione vediamo come all’aumentare del numero di figli il tasso di occupazione rimane inalterato se si tratta dei padri, mentre diminuisce costantemente se si è madri (fonte: dati ISTAT 2021).

Dai un’occhiata a questo grafico:



Un’altra conseguenza, poi, è la fatica da parte di madri lavoratrici a ricoprire un ruolo di leadership. Non sorprende che nel 2022 In Italia meno di una donna su tre occupi una posizione di leadership (32%) mentre gli uomini hanno il 63% di probabilità in più di ricevere promozioni interne per posizioni manageriali e dirigenziali (fonte: Global Gender Gap Report 2022 del WEF).



Maternità e lavoro




La scelta di avere un figlio, infatti, impatta diversamente su uomini e donne, contribuendo ad alimentare il cosiddetto gender gap.

Innanzitutto, la maternità comporta una riduzione nella partecipazione femminile al mercato del lavoro: pensa che il tasso di occupazione delle madri (25-64 anni) è del 54,5%, contro l’83,5% dei padri (dati Istat 2019). Oltre alla riduzione della probabilità di continuare a lavorare, poi, la riduzione del reddito impatta non solo nel breve ma anche nel lungo periodo: a quindici anni dalla maternità, i salari lordi annuali delle madri sono di 5.700 euro inferiori a quelli delle donne senza figli rispetto al periodo antecedente la nascita (dati ISTAT 2020).

Quando si diventa mamme, un aspetto determinante è quello del tempo: sembra sempre troppo poco e spesso con ritmi serrati e molto poco riposo. L’idea della mamma super-eroina, multitasking e performante capace di tenere in piedi famiglia, cura, lavoro, mariti, è ormai decisamente anacronistica e c’è ancora molto da fare per poter gestire equamente lavoro e figli, a partire dal tanto dibattuto congedo parentale.

Ma qual è la situazione ad oggi dei congedi parentali in Italia?



Una questione di tempo


Analizzando i dati tra il 2015 e il 2019 in media circa 320mila dipendenti del settore privato e agricolo hanno beneficiato del congedo parentale. Non sorprende che di questi, in media, l’82% erano donne.


Dati scoraggianti che nascondono però un timido miglioramento: durante questo periodo, infatti, la percentuale di uomini che hanno scelto di usufruirne è aumentata dal 15% al 21%

(fonti Osservatorio CPI - Università Cattolica del Sacro Cuore).


Come ben sappiamo In Italia, così come in quasi tutti i paesi europei, oltre al congedo parentale, ai genitori spetta anche un congedo di maternità e di paternità, da usufruire a cavallo del parto.


Nel nostro paese il congedo di maternità obbligatorio dura 5 mesi, in linea con la media europea, (circa 4 mesi e mezzo) con un’’indennità garantita in questo periodo pari all’80% della retribuzione. Il congedo di paternità, invece, è stato introdotto solamente nel 2012.

Inizialmente era stato previsto un congedo di solo un giorno, ma negli anni è stato progressivamente allungato, fino a 10 giorni retribuiti al 100%, fruibili dai due mesi precedenti la data presunta del parto sino ai cinque mesi successivi.

Uno squilibrio di trattamento molto forte che sicuramente non incentiva e supporta la parità di genere e la distribuzione equa della cura dei figli per i neo-genitori.

Una situazione che affonda le sue radici, ancora una volta in una visione patriarcale della società e della famiglia, in cui spetta al padre mantenere economicamente la famiglia, mentre la madre può badare al lavoro di cura. Una concezione anacronistica che non tiene conto dei tempi moderni, delle esigenze familiari e di coppia attuale e tanto meno delle infinite sfumature delle famiglie cosiddette tradizionali e arcobaleno.


E le aziende che fanno? Alcuni esempi virtuosi


Se da una parte manca una spinta dall’alto per cambiare le cose, dall’altra è bello vedere che alcune aziende hanno deciso di sperimentare degli approcci diversi con delle soluzioni concrete. Alcuni esempi?


  • Da aprile 2021 Volvo ha deciso di estendere il congedo di paternità a 6 mesi e retribuito all’80% a tutti i dipendenti con almeno un anno di anzianità di servizio, contribuendo a promuovere un trattamento equo tra i generi.


  • Il gruppo Kering - che già dal 2017 ha intrapreso delle misure a favore della parità di genere in tema di congedi parentali - ha esteso nel 2020 il congedo a 14 settimane retribuite al 100% a tutti i genitori.


  • Nestlè a marzo 2022 ha esteso il congedo a 3 mesi fruibile o dal padre o al secondo caregiver, in occasione del progetto “Quando nasce un figlio nasce anche un papà” e supportando il percorso di genitorialità di tutte le coppie, a prescindere dal genere.


  • Plasmon ha appena lanciato un progetto che mira a fornire una serie di strumenti per supportare la genitorialità, a partire dall’estensione del congedo parentale del secondo genitore a 60 giorni retribuiti al 100%.


  • Zurich Italia, a partire dal 1° gennaio 2020, ha esteso il congedo di 16 settimane retribuite a tutti i genitori, senza distinzione di genere e orientamento sessuale.



Misure concrete che dimostrano non solo un’apertura mentale e culturale verso l’accettazione di diverse identità di genere e orientamento sessuale ma che forniscono un concreto supporto ai neo-genitori con l’obiettivo di abbattere stereotipi culturali, generare un work-life balance equo e senza discriminazioni e alimentare un modello di co-genitorialità dove la gestione dei compiti e del tempo è ripartita equamente. C’è ancora tanta strada da fare, ma questi esempi sono di ispirazione e la speranza è che facciano da apripista verso un cambiamento culturale e concreto che abbracci una genitorialità sempre più equa e inclusiva.


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